La Mia Generazione

di

Alessandro Cascio

Tratto dalla Rivista Catrame n.18

La mia generazione era appena andata a fuoco, l’avevo bruciata sperando che la cenere generata avrebbe fatto almeno da concime alla terra. Tanta di quella musica che non avrebbe potuto mai ascoltarla tutta, tante di quelle parole che non avrebbe potuto mai leggerle tutte, tante di quelle immagini che non sarebbe mai stata in grado di guardarle tutte. La mia generazione era alle mie spalle, scoppiettante mentre mi allontanavo da lei. Il fumo provocato era più delle fiamme che l’attorniavano, accompagnata, come suo solito, da sirene e dissennate grida. Avevo con me un sassolino nella scarpa ed un borsone in pelle marrone poco pesante, una cuffia e il cd con la voce di lei a cantarmi nelle orecchie alla Hall of Fame di Leicester. Ma nonostante dessi l’impressione di aver perso tutto, avevo appena realizzato di avere acquistato, invece, ciò che da tempo noi ragazzi avevamo smesso di cercare, ciò che a noi tutti serviva: il nulla. “Di che parla la tua canzone?” le chiesi. “Di un contadino e un Re”. Mangiavo cereali incrostati di frutta secca e viscosa che otturava le naturali scavature dei denti dandomi la piacevole sensazione di insensibilità durante lo scontro tra un molare e l’altro. Torpidi sbattimenti di dentiera si alternavano ad un: “Che contadino? Che Re?” Il naso di lei sniffava nitroglicerina, deflagrante esplosivo per la testa: cocaina a strisce finissime e così poco alte che il vento non avrebbe trovato alcun appiglio per spazzarle
via, ci fosse stato. La testa scrollata, la mucosa bruciata: “Un giorno un povero contadino lottò per il suo popolo contro un Re distratto che si scordò del pane ai sudditi e dell’acqua ai somari per inseguire i sogni di un reame smisurato, ottenne appoggi e gloria, vincite su vincite, cariche ed onori e in fine l’Impero, diventando Re”. Le gengive non reggevano il contraccolpo dei miei denti a prova d’urto e si infiammavano sanguinando rosse striature ai bordi dei canini: “Che Re?” “Un Re distratto, che si scordò del pane ai sudditi e dell’acqua ai somari per inseguire i sogni di un reame smisurato, ma un giorno…” Spolverai il tavolo con un tiro che mi assopì il naso e mise in tensione la mia fronte aggrovigliandola in piccoli rotoli di pelle aggrottata: “… un povero contadino lottò per il suo popolo…” “Già” rispose lei. La mia generazione scriveva d’amori persi in diari aperti al mondo, con artificio e vittimismo, attorniando le parole di lucenti stelline, glitter e tristi smile giallastri e incongruenti, ma le loro parole e le loro espressioni non differivano, e la disperazione perdeva singolarità rendendola piatta, come se lo stesso giovane combattuto e dannato avesse girato il mondo facendo soffrire allo stesso modo ogni amante che scriveva in quei diari.
La mia generazione era un passo dietro alla scarpata, ma la sua fortuna stava nel fatto che s’era fermata e aveva smesso di camminare. Per questo, il fumo che avevo dietro
imbrattava i muri, ma non loro, non me, che sembravo assuefatto al biossido di carbonio, come alle droghe leggere e avevo imparato a fare a meno dell’ossigeno.

Feci due passi ancora, mille miglia verso il punto di partenza, che non avrei trovato, ma che non mi sarei stancato mai di cercare. Trovare equivale a morire. Cercare è l’unica vita che io abbia mai conosciuto. E allora via da lì, via da quella casa ereditata dai miei per cui non avevo lottato, via dal perché delle guerre e dai “troviamo un accordo politico”, via da giardini troppo uguali ad ogni giardino del mondo: la mia casa ero io.


 


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