La mia generazione era appena andata a fuoco, l’avevo bruciata sperando che la
cenere generata avrebbe fatto almeno da concime alla terra. Tanta di quella
musica che non avrebbe potuto mai ascoltarla tutta, tante di quelle parole che
non avrebbe potuto mai leggerle tutte, tante di quelle immagini che non sarebbe
mai stata in grado di guardarle tutte. La mia generazione era alle mie spalle,
scoppiettante mentre mi allontanavo da lei. Il fumo provocato era più delle
fiamme che l’attorniavano, accompagnata, come suo solito, da sirene e dissennate
grida. Avevo con me un sassolino nella scarpa ed un borsone in pelle marrone
poco pesante, una cuffia e il cd con la voce di lei a cantarmi nelle orecchie
alla Hall of Fame di Leicester. Ma nonostante dessi l’impressione di aver perso
tutto, avevo appena realizzato di avere acquistato, invece, ciò che da tempo noi
ragazzi avevamo smesso di cercare, ciò che a noi tutti serviva: il nulla. “Di
che parla la tua canzone?” le chiesi. “Di un contadino e un Re”. Mangiavo
cereali incrostati di frutta secca e viscosa che otturava le naturali scavature
dei denti dandomi la piacevole sensazione di insensibilità durante lo scontro
tra un molare e l’altro. Torpidi sbattimenti di dentiera si alternavano ad un:
“Che contadino? Che Re?” Il naso di lei sniffava nitroglicerina, deflagrante
esplosivo per la testa: cocaina a strisce finissime e così poco alte che il
vento non avrebbe trovato alcun appiglio per spazzarle
via, ci fosse stato. La testa scrollata, la mucosa bruciata: “Un giorno un
povero contadino lottò per il suo popolo contro un Re distratto che si scordò
del pane ai sudditi e dell’acqua ai somari per inseguire i sogni di un reame
smisurato, ottenne appoggi e gloria, vincite su vincite, cariche ed onori e in
fine l’Impero, diventando Re”. Le gengive non reggevano il contraccolpo dei miei
denti a prova d’urto e si infiammavano sanguinando rosse striature ai bordi dei
canini: “Che Re?” “Un Re distratto, che si scordò del pane ai sudditi e
dell’acqua ai somari per inseguire i sogni di un reame smisurato, ma un giorno…”
Spolverai il tavolo con un tiro che mi assopì il naso e mise in tensione la mia
fronte aggrovigliandola in piccoli rotoli di pelle aggrottata: “… un povero
contadino lottò per il suo popolo…” “Già” rispose lei. La mia generazione
scriveva d’amori persi in diari aperti al mondo, con artificio e vittimismo,
attorniando le parole di lucenti stelline, glitter e tristi smile giallastri e
incongruenti, ma le loro parole e le loro espressioni non differivano, e la
disperazione perdeva singolarità rendendola piatta, come se lo stesso giovane
combattuto e dannato avesse girato il mondo facendo soffrire allo stesso modo
ogni amante che scriveva in quei diari.
La mia generazione era un passo dietro alla scarpata, ma la sua fortuna stava
nel fatto che s’era fermata e aveva smesso di camminare. Per questo, il fumo che
avevo dietro
imbrattava i muri, ma non loro, non me, che sembravo assuefatto al biossido di
carbonio, come alle droghe leggere e avevo imparato a fare a meno dell’ossigeno.
Feci due passi ancora, mille miglia verso il
punto di partenza, che non avrei trovato, ma che non mi sarei stancato mai di
cercare. Trovare equivale a morire. Cercare è l’unica vita che io abbia mai
conosciuto. E allora via da lì, via da quella casa ereditata dai miei per cui
non avevo lottato, via dal perché delle guerre e dai “troviamo un accordo
politico”, via da giardini troppo uguali ad ogni giardino del mondo: la mia casa
ero io.
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